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26

Ago 2014

Un po’(st) polemico

scritto da / in SENZA FILTRO / Commenta

Questo è un post polemico.

Cioè, non proprio polemico…più di critica distruttiva nei confronti dei professionisti improvvisati a cazzo.

Ok.

Questo è un post polemico.

Lettore avvisato.

Ragazzi quanta assurda fuffa c’è in giro?! Ma , davvero, quanta? Quanta gente che si professa professionista e poi utilizza termini che nemmeno nell’alto medioevo?

Gente che si vende come esperta di comunicazione e usa la punteggiatura a caso, abbondando di punti esclamativi e di espressioni dialettali che – va bene conservare le tradizioni- ma se scrivi per tutta Italia è d’uopo (tiè, lo so usare anche io) che ti possano capire con facilità, no?!

Continuo a pensare che il problema resta solo ed esclusivamente mio.

Perché cazzo io  non riesco a  magnificare come vorrei il mio operato come fanno queste orde di dilettanti allo sbaraglio che poi, mannaggia ai pescetti, lavorano?!

Sì, lavorano e contaminano la società con informazioni errate e culture dismesse.

Eppure.

Eppure, ‘sti quattro improvvisati della apocalisse della qualità, si presentano all’occhio poco sgamato di ingenui – e ancora troppo poco eruditi utenti – come il fornitore ideale.

E comunque, ora che lo sfogo è pervenuto, la polemica finisce qui.

Già perché fondamentalmente con questa gente che mira alla quantità senza qualità ho poco a che spartire.  Quello che dai, ricevi.

Ci insegnano i grandi che dobbiamo imparare darci valore. Questo è clamorosamente giusto. Ma miseria vacca, è opportuno farlo con obiettiva coscienza di quello che possiamo offrire!

Fuffaroli della apocalisse, la lotta in difesa della qualità abbia inizio.
E che vinca il migliore.
Cioè io.
Tiè!

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02

Nov 2012

Preferisco Socrate

scritto da / in SENZA FILTRO / Commenta

Partiamo da un presupposto. Sarà che sono in fase pre-mestruale, che l’ormone è inacidito dal freddo, ma oggi sono particolarmente polemica. Con tutti e con me stessa. Avevo iniziato a scrivere un articolo per il nostro sito aziendale e ho lasciato perdere. Non mi convinceva, troppo fumoso, poco chiaro. Mi sono fatta schifo da sola.

Mi metto a navigare sul web, consulto i social network, faccio una studiatina e una pettegolata curiosa tra le pagine di blog gossipari, e niente, non passa. Quel diavoletto polemico continua ad aizzarmi. Mi induce, mefistofelico, a mettere nero su bianco quello che mi passa per la testa. Io resisto.

Abbandono il computer, mi metto a stirare e mi dico che sarà il caso di dedicarsi alla lettura di uno dei due nuovi libri che ho sul comodino…

…la vocina continua a tentarmi e alla fine che faccio? Beh, chiaro cosa faccio…sono qui che scrivo.

Una delle cose che, in questo periodo, sto cercando di combattere è la mancanza di qualità che respiro intorno in me. Tanti general CEO head della fava, insomma tanti professionisti, o sedicenti esperti che mascherano dietro all’altisonante anglicismo della qualifica una professionalità che, ahimé, il più delle volte è solo fuffa, e di pessima fattezza. Leggo i loro blog, nati per dare valore ed evidenza al loro sommo sapere e non trovo altro che una visione distorta, o forse meglio, poco reale e tangibile del mercato o della realtà di cui trattano. Tutti teorici della fuffa. Tutti professori di ‘sto… Mi arrabbio, è più forte di me. Non sopporto la mancanza di qualità, quel baratro di competenze, la mancanza di carisma e di valore.

Certe persone sembra che non abbiano fatto altro nella loro vita che sedersi in cattedra e dare lezioni…sì, senza mai sporcarsi le mani con la realtà, quella vera, fatta di persone e di oggetti che puoi ascoltare, toccare, odorare, vedere.

Poca umiltà, poco ascolto e un intuito mascherato dietro al copia e incolla di teorie che non sono farina del loro sacco, ma rielaborazioni di sudate carte di qualcuno che magari ci ha messo una vita ad arrivarci.

Non sopporto chi parla o scrive in burocratese o in markettingaro da strapazzo con l’illusione che gli altri rimangano abbagliati dalla favella ricamata e diano poco peso alla sostanza. Discorsi spesso riassumibili in un nulla, inequivoco e palese, disarmante e preoccupante.

Abbiamo davvero bisogno di indossare la maschera della distanza per salire sul podio degli eletti ad autorità?
Dobbiamo necessariamente far vedere che l’inglese lo sappiamo e che spesso, invece, scivoliamo sui congiuntivi della nostra lingua materna?

Va da sé che certe professioni richiedano un vocabolario carico di tecnicismi di matrice straniera, ma questa esterofilia ci aiuta davvero a farci notare di più a livello professionale? Conferisce più valore a quello che facciamo? Io non credo.

Purtroppo, con il lavoro che faccio mi trovo a dover utilizzare vocaboli made in UK (tanto per dirla in modo figo, sì figo, no cool, perché da noi il cul è un’altra cosa!). Dicevo, spesso nelle mie conversazioni è inevitabile intercalare delle parole di matrice anglosassone, ma appena posso, specie se mi trovo con dei clienti, cerco di spiegare ‘all’italica maniera’ che cosa sto dicendo. Credo che la comunicazione sia fatta, soprattutto e anche di questo: comprensione. Uno scambio di informazioni chiare e lineari che permettono alle persone di dialogare tra loro. Per me il comunicare che si riduce al monologo autoreferenziale racchiude, in fondo, una volontà di prevaricazione –  verbale o scritta che sia – sull’altro che preclude a quella naturale interazione che ne dovrebbe scaturire.

Nascono come funghi espertissimi professionisti nostrani (con titoli e qualifiche che secondo me in America non hanno ancora inventato) che fanno del personal branding una ragione di vita. Già adesso esiste il personal branding, che detto in soldoni sarebbe il vendersi/promuovere se stessi o le proprie attività, raccontando e sfoderando, specie nel canale web, le proprie competenze. E ci sta tutto, non critico l’intenzione ma il modo. Un modo che molte volte ricalca quello di altri, costipato di ovvietà e marchiato a fuoco con la lingua inglese.

Preferisco una dichiarazione socratica, un ‘so di non sapere’ sincero che una traduzione arraffazonata di qualche blog esterofilo che magari, in fondo in fondo, nemmeno l’autore – quello che realizza il falso intendo- ha ben capito cosa sia.

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